Maggio: bilancio di un anno
Il primo mese è stato il peggiore. L ‘entusiasmo che a settembre mi pervade in ogni fibra si scontrava con violenza con la loro ostilità, la loro indifferenza, una rabbia cieca contro cui nulla potevano la disponibilità, l’affetto, l’empatia, l’apertura, l’invito al dialogo.
Qualcuno è andato via subito, lusingato dalle promesse della strada; abbiamo convocato famiglie diffidenti ed assistenti esasperati, ma Giovanni, Raffaele, Alfredo non li ho più visti tornare: irriverenti, sicuri di sé assai più di quanto dovesse consentirgli la loro età, hanno voltato le spalle alla scuola, alle prospettive di una vita onesta ma dura, semplice ma dignitosa, per rincorrere i miti dorati del guadagno facile, sprezzanti del pericolo e perfino della morte.
Le ragazze sono rimaste un po’ di più: pretendevano di arrivare a scuola quando faceva loro comodo, di dormire sui banchi o di poggiarvici i piedi, di masticare sguaiatamente il chewingum con un occhio rivolto sempre al cellulare, di cantare e urlare quando ne avevano voglia. Qualsiasi interazione era un tentativo di provocazione, il desiderio di scoprire se la pazienza e l’affetto con cui mi sottraevo al loro sfrontato rifiuto fossero autentici o di facciata.
Col tempo, mi hanno raccontato di padri reclusi, madri sbandate, violenze di ogni sorta, che il mio cuore di donna e di madre faticava a contenere.
Ho capito allora che tutti i bambini nascono intelligenti, arguti, capaci. Ma solo ad alcuni “capita” una famiglia che abbia la possibilità, la disponibilità o la volontà di accogliere il dono prezioso della loro vita, di onorarlo e di custodirlo. Altri vengono abbandonati ad un destino infame, dal quale, da soli, non hanno alcuna possibilità di riscattarsi.
Anche Michela, Luisa, Anna sono andate via, dopo Natale, sbandierando la convinzione che le regole, la scuola, quei primi germogli di legalità che volevo invitarle a coltivare e ad innaffiare, non servivano a niente, non certo a loro, che avevano già chiaro in mente il disegno e la direzione che avrebbero tracciato con le loro vite indifese. Me lo hanno detto con un sarcasmo nel quale non ho faticato a scorgere un barlume di tenerezza, quasi volessero proteggere l’ingenua purezza dei miei propositi e della mia fiducia.
Molti, però, sono rimasti: mi urlavano contro la loro rabbia anche tutti i giorni, reagivano con la stessa alzata di spalle ai rimproveri e alle lodi, ma buttavano via il chewinggum prima di entrare in aula, si scusavano per il ritardo, portavano in classe i quaderni e alla fine addirittura i compiti svolti. Fingevano indifferenza verso i voti più alti, ma poi mi fermavano per chiedermi se li avevano meritati davvero, se pensavo che loro potessero farcela.
Ho comprato, in quest’anno, pacchi interi di penne e di fogli, ho fotocopiato migliaia di testi: negli ultimi tempi, hanno imparato a conservarli e a prendersene cura. Adesso, prima della fine, a maggio, uno di loro mi ha scritto in un tema di aver scoperto l’importanza dell’ordine e delle regole, una nuova dimensione nella quale gli sembra di sentirsi più protetto, più sicuro, più sereno.
Ricorre, in questi giorni, l’anniversario della strage di Capaci, ma io non avevo avuto abbastanza coraggio, per chiedergli di scriverne. Il giudice Falcone, la sua attività per difendere lo Stato dalla deriva mafiosa, era un modello contrario alla loro idea malsana di giustizia: la polizia era loro nemica, nemica delle loro famiglie e dello stile di vita al quale pensavo fossero irrimediabilmente abituati.
E invece, quelle considerazioni a margine mi dimostravano che la forza dei modelli virtuosi si insinua lentamente, attraverso la pratica quotidiana della legalità, e inebria di luce pure il buio più nero.