di Pippo Gallelli
Il suo nome è Yasmine, ma chiamiamola Speranza. Ha undici anni e negli occhi il peso di un orizzonte spezzato. Ha perso suo fratello, la sua famiglia, eppure il suo grido ha trovato ascolto tra le onde di un mare che inghiotte tutto: vite, sogni, futuro. Sopravvissuta, sì, ma la sua salvezza non è felicità, bensì un dolore che la segnerà per sempre. È anche un respiro strappato al buio, un miracolo che urla al mondo un bisogno disperato di umanità.
Yasmine indossa un giubbotto salvagente, unico compagno rimasto. È stata salvata dall’equipaggio del Trotamar III, il veliero della ONG tedesca, da quei volontari che una politica ottusa e rancorosa addita quasi fossero criminali. Intorno a lei c’è solo il silenzio della tragedia: gli altri passeggeri della barca di ferro partita da Sfax, in Tunisia, non ce l’hanno fatta. Quarantacinque anime inghiottite dal mare.
Eppure, nell’indifferenza generale, la sua storia rimane piccola, schiacciata da una società troppo distratta. Più attenta al dissing – orribile parola – tra Mammucari e la Fagnani, che al dramma di chi muore cercando una speranza. Troppo presa a difendere un suolo patrio dai poveri della terra, dimenticando che la vera minaccia non viene dal mare, ma dall’odio.
Yasmine è la voce che sopravvive al silenzio di un’Europa presente solo nei conti delle banche, al livore schiumante degli haters, all’apatia di chi gira lo sguardo altrove. È un faro, piccolo ma acceso, in questo buio di disumanità che ormai ci appartiene.
Chiamiamola Speranza, perché il suo salvataggio, insperato, è il dono più grande che ci portiamo nell’anno che verrà. Un respiro che ci invita a ricordare che siamo umani solo se capaci di vedere nell’altro, nel più fragile, qualcosa di sacro.
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