Nata in Calabria, da ragazzina sognava di fare la giornalista o la scrittrice perché le piaceva scrivere, e immaginava il suo futuro a raccontare storie. Intanto leggeva sempre, da Topolino a Piccole donne a tutta la narrativa d’avventura che la portava in giro per il mondo, Zanna Bianca, Robinson Crusoe, Salgari, e poi il Piccolo principe e tutti quei romanzi generazionali di formazione che la facevano crescere, curiosa di sapere e di approfondire. Poi erano arrivati Pirandello e la letteratura russa, Cechov, Tolstoj e Dostoevskij, in cui si immergeva avidamente, per seguire le trame, i personaggi, i drammi, gli intrighi, e amare e imparare la loro scrittura, come un apprendimento didattico di stile e di forma, che sarebbe stato utile per il suo futuro.
Finito il liceo, Giovanna Masci voleva iscriversi a una facoltà letteraria con indirizzo giornalistico, ma il padre disse che non avrebbe pagato la retta perché nella loro terra non c’era futuro per quel mestiere. Così ripiegò su Medicina, che parallelamente era anche un po’ la sua vocazione, e scelse oncologia, una specializzazione che negli anni ’90 era considerata ancora laterale, e quindi con poca ressa. Un vantaggio per la frequentazione e l’attenzione.
“Mi ero iscritta a Roma, e ho frequentato la cattedra del professor Federico Pellegrini, al Policlinico. Una figura illuminata, che mi aveva aperto la mente e appassionato agli studi sui tumori. Dopo la specializzazione a Tor Vergata, nel 2000 sono venuta a Milano, dove stava nascendo lo IEO, l’Istituto Europeo di Oncologia fondato dal professor Umberto Veronesi, per un progetto di ricerca sullo studio di una particolare proteina, la telomerasi, un enzima che agisce sulle cellule tumorali. E poi sono passata all’Humanitas, centro di eccellenza per le cure dei tumori, dove c’è il mio team, colleghe e colleghi con cui studiamo, ci confrontiamo e assistiamo i pazienti. Milano pian piano mi ha conquistata, e da allora non sono più andata via”.
Abituata al clima, al mare, ai colori, e alla pigrizia lenta della Calabria, sarà stato quasi uno choc…
Ero già passata da Roma, e quindi una certa scossa destabilizzante l’avevo già subita. Ma in fondo era anche un’avventura, e mi piaceva viverla. E poi, c’è il mio gene DRD4 – 7r che predispone ai viaggi e alla migrazione, e da sempre mi ha fatto sentire pronta con la valigia in mano.
Però a Milano si è fermata.
Sì, perché mi ha dato la possibilità di una forte crescita professionale, con esperienze, riconoscimenti e soddisfazioni, motivazioni forti per andare avanti, per approfondire sempre più la ricerca sui tumori, studiare i nuovi protocolli e le terapie, tutti impegnati per arrivare a sconfiggere questo male dilaniante, così democratico da colpire giovani e anziani, donne e uomini, ricchi e poveri. La ricerca ci ha dato risultati importanti, perché oggi non si muore più di quel “brutto male”, come si diceva un tempo, ed è uno stimolo a proseguire il cammino. E un conforto per l’anima.
L’essere a contatto quotidiano con chi soffre e lotta per sopravvivere l’ha riportata al suo primo amore, la scrittura.
Avevo tre mesi di fermo dopo un’operazione all’anca con protesi: un periodo di inattività, nel concetto filosofico orientale che porta la mente a orientarsi verso fasi meditative. Nella mia solitudine claudicante e inerte, ho cominciato a scrivere: poesie, pensieri, riflessioni, e poi storie, quelle delle donne che avevo incontrato sul nostro campo di battaglia, che avevano reazioni diverse alla malattia, diversi modi di affrontarla e di viverla, e che mi vedono sempre come l’angelo custode. E da quei racconti è nato “Male habitus”, con tutta l’incertezza e l’inesperienza della prima volta. Ma mi sembrava importante farlo, anche come messaggio di positività. Parlavo di un tema non facile da trattare, attraverso gli stati d’animo e i sentimenti, spesso di paura, ma ho cercato di farlo in una cornice di quasi normalità, senza indulgere alla disperazione. Perché la malattia, come la vita, va considerata per quello che effettivamente è, cioè uno stato di non salute nel ciclo naturale dell’esistenza, da contrastare con tutte le forze possibili, ma accettandone l’inevitabilità come destino. E ha avuto successo.
Poi ha continuato a scrivere.
Sì: in pieno lockdown, finito il lavoro all’ospedale e chiusa in casa, senza contatti, senza mascherina, in cinque giorni ho scritto “Viaggio di sola andata”, storia di un imprenditore fallito che lascia la Sicilia per raggiungere in treno la sorella, ricoverata in gravi condizioni in un ospedale milanese. Un gesto in apparenza normale, e che invece è eccezionale, anzi illecito, per via delle restrizioni da Covid, che diventa per lui l’occasione di una fuga: dal rapporto rovinoso con la moglie, dall’incomunicabilità con i figli adolescenti e con la sua famiglia di origine, e dalla mafia locale che stringe in una morsa asfissiante la sua vita. Durante il lungo viaggio notturno che da Messina lo porta a Milano, e poi l’incontro con la sorella, i giorni di solitudine e di riflessione al Nord, riuscirà a mettere lentamente a fuoco la sua vita, e quando tornerà sull’isola sarà un uomo nuovo, capace di trovare la forza di cambiare se stesso e frantumare i lacci che fino al giorno prima avevano schiacciato il suo carattere, la sua personalità e la sua intelligenza. E poi ho scritto un terzo libro, “Il lupo blu e la cerbiatta fulva”, dopo un viaggio in Mongolia che mi aveva messo a contatto con una realtà spirituale molto diversa dalla nostra. Un’avventura emozionante in quella maestosa bellezza, tra nomadi, falconieri, monaci buddisti, dove il suolo non si deve violare, neppure piantando i pioli delle tende nella terra per non ferirla. In quel Paese sospeso tra culture diverse, tra il mondo tecnologico e quello arcaico, ancora primitivo e selvaggio dove lo sciamano intercede per le anime libere degli uomini che stanno attraversando la morte celeste, e i cadaveri vengono abbandonati nella steppa perché possano cibarsene gli avvoltoi, affinché tutto rientri nel ciclo eterno della vita, lì, in quella la cornice perfetta per far nascere i sentimenti, ho ambientato una storia d’amore e di avventura.
Quando trova il tempo e la concentrazione per scrivere?
La sera, quando torno a casa, e lascio fuori il dolore e le sofferenze che ho incontrato la giornata. Non ho neppure la televisione, e il mio tempo notturno è per la lettura o per la scrittura, quasi per distrarmi ed entrare in nuove realtà. Ho tanti libri che vorrei leggere ancora, e forse anche tante storie da raccontare. Come per dicotomia, ho bisogno di questi spazi tutti per me. Non ho una vita mondana, al massimo la frequentazione di qualche salotto letterario dove ci si ritrova fra amici. E poi, appena arriva il tempo più tiepido della primavera, vado ad annaffiare il mio orto, uno spazio che con alcune amiche abbiamo preso in affitto dal Comune, dove coltiviamo la verdura e la frutta di stagione. Così abbiamo sempre i nostri prodotti bio, a chilometro zero. Un modo per essere a contatto con la natura. I miei momenti zen che mi ricaricano e mi fanno sentire forte, per curare e aiutare chi ha più bisogno di me.