Lo scrittore latino Varrone nel De re rustica inserisce i servi fra gli attrezzi che occorrono alla coltivazione dei campi, quasi alla stessa stregua di buoi e carri, salvo che per una peculiarità: lo schiavo è un instrumentum vocale, differisce da animali e oggetti, quindi, solo perché munito di voce.
Il termine schiavitù, nella sua accezione di condizione di persona totalmente priva di libertà e diritti, soggetta all’arbitrio del legittimo proprietario, appare, oggi, anacronistico e superato; ci rimanda agli studi storici, al mondo greco e romano, a Spartaco e alle guerre servili o, in tempi più recenti, agli schiavi nelle piantagioni latifondiste degli Stati Uniti.
Secondo il rapporto Stime globali della schiavitù moderna: Lavoro forzato e matrimonio forzato curato dall’ILO (International Labour Organisation), invece, nel 2021, le persone che vivevano nella situazione di schiavitù moderna erano ben 50 milioni, di cui circa 28 milioni costrette al lavoro forzato e il resto obbligato al matrimonio imposto.
Cifre raccapriccianti, che dovrebbero indurre a riflessioni fondamentali, da non relegare solo al 2 dicembre, giorno in cui, nel 1949, l’Assemblea generale ha approvato la Convenzione delle Nazioni Unite per la soppressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui e nel quale, da allora, si celebra la Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù.
Da una rapida disamina di una scheda di approfondimento sulle forme moderne di schiavitù pubblicata da Amnesty International emerge che le differenze rispetto all’antichità sono, praticamente: nulle. Tra le tipologie di schiavitù, infatti, risultano: quella per nascita, per debiti, la tratta degli esseri umani, il lavoro minorile.
Sfruttati, sottopagati, maltrattati, spesso abusati, utilizzati per l’espianto degli organi, impiegati in modo coercitivo nelle attività criminali, nella prostituzione, nell’accattonaggio questi esseri conducono un’esistenza che di umano ha ben poco.
Il fenomeno non è caratteristico di paesi del Sud del mondo, distanti da noi geograficamente e culturalmente, ma risulta profondamente radicato anche nella ricca e civilizzata società occidentale.
I braccianti che nelle campagne ricevono una paga di 3/4 euro per un cassone di raccolto di 370 kg, le ragazze che si prostituiscono per una manciata di euro, di cui una parte andrà allo sfruttatore, i lavoratori in nero, i fattorini retribuiti a circa 3 euro a consegna: sono realtà che conosciamo bene e che si ripresentano sovente davanti ai nostri occhi.
Lo sfruttamento della prostituzione così come quello del lavoro sono configurati dalla legge come reati molto gravi, per i quali è prevista anche la reclusione. A dispetto di ottime leggi, però rimane ben consolidata l’abitudine a ricorrere al facile arricchimento, fondato sulla speculazione, che non tiene in alcun conto la dignità umana, con la certezza dell’assenza di una pena adeguata.
Copertina di #eineBerlinerin