L’ennesima boutade, o almeno speriamo si riveli tale, potrebbe diventare un boomerang per gli attuali Governo e maggioranza parlamentare o, si potrebbe tradurre in un presumibile, pericoloso “ritorno al passato” di “ventennale” memoria.
Stiamo parlando dell’ultima trovata di riforma legislativa della presidente del consiglio Giorgia Meloni e dei suoi accoliti, relativa alla riforma costituzionale, “madre di tutte le riforme”, che vorrebbe l’elezione diretta del primo ministro. Se la memoria non ci inganna, le ultime news in nostro possesso, parlavano di una riforma costituzionale di grande portata ma che si rivolgeva all’elezione diretta del Presidente della Repubblica e che avrebbe portato il nostro Paese verso esterofili, consone e culturalmente vicine sponde franco-statunitensi a seconda di come si sarebbe sviluppata e stabilito il ruolo del Parlamento.
Proprio quel Parlamento, cardine indiscusso, in quanto istituzione votata direttamente dai cittadini, del nostro sistema democratico, che i costituenti “scelsero” dopo il disastro del ventennio fascista.
Oggi, anzi alcuni giorni addietro, il capo del governo Giorgia Meloni, ha tirato fuori dal cilindro di Palazzo Chigi la proposta che invece di andare ad eleggere il capo dello Stato, i cittadini voteranno direttamente il premier, il Primo Ministro, il presidente del Consiglio dei Ministri.
Vediamo in sintesi di che si tratta.
Escluse le cosiddette norme Transitorie e Finali, il testo del DDL si sviluppa in 4 articoli. L’articolo 1 cancella il secondo comma dell’art. 59 della Costituzione relativo ai senatori a vita. Nel nuovo testo diverrebbero senatori a vita solo gli ex presidenti della Repubblica fatti salvi quelli nominati fino a ora.
Il secondo articolo modifica alcune parole dell’art. 88 della Costituzione e nel nuovo testo il PdR non avrebbe più la possibilità di sciogliere una delle due camere in modo separato. In realtà il potere di sciogliere una sola Camera (il Senato nello specifico), è stato usato solo tre volte nella storia repubblicana e fino al 1963.
Il terzo articolo è quello chiave della riforma che sostituisce totalmente l’attuale 92 della Costituzione e che indicherà l’elezione diretta del premier da parte dei cittadini. Nel testo si legge che il presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini resta in carica 5 anni. Si voterà su un’unica scheda elettorale unitamente alle elezioni delle Camere e per assicurare al nuovo premier una solida maggioranza è previsto anche un premio di maggioranza che garantisca almeno il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al premier. È previsto che il nuovo premier sia comunque un parlamentare. Ah beh!
Un dubbio però può sorgere ed è un dubbio non da poco perché di incostituzionalità. Non si fa menzione dell’art. 57 della Costituzione che parla dell’elezione dei senatori su base regionale. Questo mal si concilierebbe con un premio di maggioranza assegnato in modo generico su “base nazionale”.
Infine, l’articolo 4 della riforma che modifica il 94 della Costituzione in due direzioni: premessa la permanenza del vincolo di fiducia tra Governo e Parlamento, il neo “presidente eletto” pur non ricevendo la fiducia al primo colpo, avrà la possibilità di un nuovo “tentativo”. Fallito anche il secondo, il PdR potrà procedere con lo scioglimento delle Camere. In seconda analisi il nuovo testo costituzionale andrebbe a prevedere che, in caso di “cessazione dalla carica del presidente del Consiglio eletto, il Presidente delle Repubblica, sia autorizzato a conferire l’incarico di formare il governo, nuovamente al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”. Se questo tentativo non andasse in porto, al Presidente della Repubblica non resterebbe che procedere con lo scioglimento delle Camere.
A ben vedere e attenendoci all’attuale testo possiamo sicuramente ritenere di trovarci nel bel mezzo di una tempesta, tra omissioni, mancanze e diverse contraddizioni di carattere, ovviamente, costituzionale. Le tempeste, però, si quietano, ma la questione sarà ora quella di capire come quietarle perché le alternative sono due.
La prima, un atto d’imperio, molto pericoloso da parte di questa larga maggioranza con aggiunte di qua e di là fino a raggiungere i numeri necessari; la seconda, un percorso attento e discusso nei termini democratici dettati da quella che ancora è la nostra Carta Costituzionale, al fine di far comprendere anche ai cittadini, magari con anche la previsione di un referendum, il senso di una rivoluzione, almeno per i nostro paese, di tale portata.
Al momento siamo ancora in una fase embrionale dell’iter di riforma e ciò che possiamo fare in questo momento, è confidare nel primo garante della Costituzione, Sergio Mattarella che, molto saggiamente ancora non ha proferito parola.