“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Questo recita il comma due dell’art. 3 della nostra Carta Costituzionale. A leggerlo e rileggerlo, ci si accorge quanto di più inattuato, disatteso, fuorviato sia, in considerazione delle scelte che l’attuale governo ha compiuto e sta compiendo, dall’atto del suo insediamento, con la legge finanziaria 2023 e soprattutto con l’entrata in vigore il 3 Luglio scorso, a seguito della pubblicazione nella G.U. n.153, delle norme, già previste nel decreto legge n. 148, riguardanti le “nuove misure di inclusione sociale e lavorativa.
Si tratta di un provvedimento, fortemente voluto dal governo Meloni, ispirato da un pensiero oserei dire “classista” se non odiosamente punitivo, destinato ad aumentare le disuguaglianze e peggiorare le condizioni economiche delle fasce sociali più deboli, a partire da chi si trova in povertà assoluta. E’ facile cogliere la contraddizione e la traiettoria dissonante con il suddetto dettato Costituzionale, a cui tuttavia molti restano ancora indifferenti, forse abbagliati da una propaganda al limite dell’imbonimento. Infatti in primo luogo viene portata a compimento la misura, tutta politica, già prevista nella legge di bilancio per il 2023 cioè: l’abrogazione del Reddito di Cittadinanza.
Esso pur con alcuni limiti, dovuti a scelte originarie sbagliate, aveva rappresentato negli ultimi anni una efficace misura di contrasto alla povertà ed alla mancanza di reddito, allineando finalmente il nostro paese a tutti gli altri dell’Unione Europea.
Con la nuova misura si è voluto strumentalmente e provocatoriamente introdurre una regola categoriale che discrimina le famiglie in condizione di bisogno in base a criteri che prescindono dalla situazione reddituale e patrimoniale. Si afferma, in una logica punitiva della condizione di povertà, una nuova frontiera della disuguaglianza nel nostro Paese: l’adozione di politiche ineguali verso persone in eguale condizione di difficoltà economica. Infatti la creazione di un doppio binario che distingue chi è ritenuto meritevole di ricevere un sostegno economico e di essere preso in carico per l’attivazione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa, da chi è ritenuto colpevole della propria condizione e, pertanto, è sostenuto in misura minore ed esclusivamente se partecipa ad attività di formazione e per un tempo limitato, non tiene per nulla conto delle caratteristiche della povertà come fenomeno strutturale e complesso richiedente un approccio sistematico.
Il sistema delineato dalle due nuove misure, insomma, non tenendo per nulla conto tra l’altro del “lavoro povero” esclude i lavoratori poveri, tra i 18 e i 59 anni che non appartengono a famiglie con minori, disabili, o over 60. Un giovane precario di 30, e sappiamo bene quanti ce ne sono soprattutto in Calabria e nel Mezzogiorno, oltre a guardare gli ultimi dati sui Neet diffusi dall’Istat in questi giorni, pur in possesso dei requisiti richiesti, non riceverà nulla. E’ evidente che se davvero si fosse voluto riorganizzare le politiche sociali col criterio del welfare inclusivo ed universale non serviva abrogare il RdC ma correggerne le criticità per migliorarlo.
Nel Giugno del 2022 in una Ed. Laterza usciva un libro del Prof. Enzo Ciconte, illustre storico calabrese, dal titolo: Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’eta’ moderna a oggi. In esso con una chirurgica accuratezza viene analizzata la concezione e la condizione di povertà, nella storia dell’umanità e soprattutto la considerazione dei poveri nelle diverse fasi nell’età moderna: “quando per la prima volta il povero perde la concezione sacrale e diventa, agli occhi dei gruppi dominanti, colpevole del proprio stato”. Ecco nei provvedimenti assunti dal governo è a questo pensiero classista che si ritorna, all’idea che essere povero, inoccupato, sia una scelta ed un pericolo sociale.
Questa teoria è il massimo tradimento dello spirito inclusivo che pur in una concezione progressiva anima la Costituzione. Com’è stato possibile che sia venuta a determinarsi questa regressione? Come è stato possibile disperdere, culturalmente, politicamente, il migliore pensiero sociale che ha caratterizzato il secondo dopoguerra nell’Europa ed in Italia?
Se la condizione di impoverimento individuale viene assunta come dato incontrovertibile, diventa quasi accettabile il declino collettivo del nostro Paese e gli unici sforzi vengono indirizzati a tutelare gli interessi “privatistici” di ceti, classi, territori, animando separatezze, divisioni, speculazioni. E’ quanto si sta determinando ormai da alcuni anni in Italia. Questa realtà, tuttavia non è data per sempre. E’ possibile rivendicare e sostenere la centralità del dettato della nostra Carta Costituzionale, rimasto comunque unico baluardo contro una deriva che è necessario contrastare con un rinnovato pensiero ispirato al bene comune, all’inclusione, ai diritti collettivi, ed ad una funzione dello Stato come promotore del benessere e della cittadinanza attiva.
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