L’estate che arriva e il clima torrido dell’area urbana di Cosenza, in Calabria, si preannunziano a rischio di calde polemiche. La conurbazione che fa riferimento al territorio a nord di Cosenza (la città capoluogo di provincia della “Calabria Citra” che, al tempo del Regno delle due Sicilie era distinta dalla Calabria “Ultra” secondo la denominazione utilizzata dal 500’ fino al Regno d’Italia) è riguardata in questi mesi da un processo in fieri di fusione dei comuni.
La vicenda è sottovaluta nel suo dispiegarsi e nel suo significato storico-geografico e politico. Le righe che seguono vogliono accendere un “focus” (nazionale) su di una vicenda locale che può essere colta come paradigma replicabile in altre parti del Paese e della regione.
Se la città unica in fieri nascerà dalla fusione prevista per i tre Comuni dell’area urbana (Cosenza-Rende-Castrolibero), il nuovo Comune subentrerà ai precedenti a tutti gli effetti di legge (legge regionale e nazionale, TUEL, legge Delrio), in un quadro non semplice di attori, di regole e di finalità. Non è dato sapere se qualcuno richiamerà per questa città unica (per come disegnata nella proposta depositata in Consiglio regionale) la “Grande Cosenza” di Michele Bianchi (progetto del periodo fascista sostenuto dal politico Ministro dei lavori pubblici di Belmonte Calabro), ma è cosa certa che le polemiche riguarderanno sia il procedimento della fusione ex lege sia il merito della stessa per come è stata confezionata e programmata (città fusa nel febbraio 2025).
Il quadro normativo delle fusioni e delle unioni comunali, in Italia, è un mosaico di complicate regole nazionali e regionali nella cornice delle regole costituzionali (ex art. 133) che rende dinamica la mappa dell’amministrazione locale (i “poteri locali”).
La domanda da porsi è se le concrete attuazioni delle regole (nazionali e regionali) stiano funzionando bene, ovvero se siamo in presenza di un fallimento o di un parziale fallimento.
Stando all’ esperienza degli ultimi 20 anni (le fusioni era già nella legge del 1990, in verità), le fusioni non stanno funzionando in modo capillare nel Paese, ma a macchia di leopardo, in quanto manca una politica nazionale “per le città”, e manca una strategia per la collaborazione intercomunale e per le fusioni tra comuni medi (i finanziamenti funzionano solo per i cosiddetti “Comuni polvere”). Sulla proposta di fusione “a costo zero” avanzata dalla maggioranza calabrese, il dibattito è in crescita, ma un punto non è ben segnalato ancora: se manca il riformismo “dal basso” (proposte e azioni bottom up) allora può attivarsi il riformismo autoritario “dall’alto” (top down).
La questione – pur delicata – è presto detta e vale per tutta l’Italia, in particolare per le aree meridionali in cui le amministrazioni territoriali sono “alla stremo” e sono poco reattive e spesso fallaci nella risposta alle sfide (poste dai fondi europei, e ora dalle 6 missioni PNRR).
Il riformismo autoritario “dall’alto” e frettoloso (quello tentato dalla maggioranza calabrese) si basa su decisioni rapide, sulla assenza di consultazione istituzionale e sulla natura meramente consultiva dei referendum votati (in ogni comune) dalle popolazioni interessate.
Il riformismo democratico “dal basso” e ponderato (quello tentato dalla maggioranza regionale del tempo nel 2017 e nel 2018 per le fusioni di Casali del Manco e di Rossano-Corigliano) può, anzi deve, basarsi su delibere dei consigli comunali (necessarie e magari con co-delibere sincroniche) e su una forma di consultazione delle popolazioni interessate nei fatti vincolante la politica regionale.
Per chiudere, tre “avvertenze per l’uso” e un auspicio.
Le avvertenze valgono sia per la fusione in fieri in Calabria Citeriore (sono al momento tre i comuni “da fondere” ma possono aumentare se si seguissero matrici di convenienza e di congruenza scalare più ‘territorialiste’ e meno ‘poltroniste’), sia per le future fusioni realizzabili sul territorio.
La prima: la prassi nazionale indica che è buona norma far precedere il referendum da uno adeguato “studio di fattibilità” che riguardi tutti gli aspetti del passaggio al comune unico con riferimento non solo alle criticità finanziarie (bilanci, mutui e tributi nei comuni “da fondere”), ma anche ai processi di ri-organizzazione della macchina (personale, sedi, risorse strumentali dell’ente) e alle programmazioni pluriennali (urbanistiche, rigenerazioni territoriali, servizi a rete).
La seconda: la normativa (art. 15 TUEL) e la prassi indicano che è buona norma approvare propedeuticamente al passaggio al comune unico uno “Statuto provvisorio” valido per la fase commissariale e valutabile nel referendum (che indichi nome del comune e sedi del Consiglio e della Giunta).
La terza: l’esperienza e la normativa (artt. 16 e 17 TUEL) indicano che il comune unico non è una operazione di mera concentrazione del potere politico e del controllo democratico, ma deve essere un’operazione rispettosa delle “comunità di origine” che possono esprimere partecipazione politica e controllo amministrativo attraverso un numero variabile di “Municipi” (di decentramento) da regolare nello Statuto e nel Regolamento comunale (“Lo statuto e il regolamento disciplinano l’organizzazione e le funzioni dei municipi, potendo prevedere anche organi eletti a suffragio universale diretto”, art. 16 comma 2).
Alla luce dei quanto finora sottolineato, è agevole sostenere che il Parlamento e il Governo hanno l’onere di modificare con urgenza la legge Delrio (l. n. 56/2014), al fine di adeguare la normativa e la incentivazione finanziaria alle esigenze del Paese e alle finalità di agevolazione delle fusioni delle città medie (con numero di abitanti superiore a centomila, come Pescara e Cosenza), rendendo esplicita la traduzione in legge delle buone prassi frutto della esperienza accumulata in 30 anni di riforme sulla mappa territoriale.