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Graziano Mesina, la fine dell’ultimo bandito

di Pippo Gallelli

Si è spento in un letto d’ospedale, lontano dalle sue montagne, Graziano Mesina. L’ex primula rossa del banditismo sardo aveva 83 anni e la malattia, più tenace di qualunque guardia carceraria, ha scritto la parola fine su una vita che per decenni aveva sfidato lo Stato, la giustizia e il tempo stesso.
Solo ieri, il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva accolto l’ennesima istanza presentata dalle sue avvocate, riconoscendo che ormai di pericoloso non restava più nulla se non l’ombra della morte, pronta ad accompagnarlo. Non c’è stato il ritorno a Orgosolo che desiderava, soltanto il trasferimento dal carcere di Opera al reparto detenuti del San Paolo, dove il suo cuore si è fermato.
Una coincidenza carica di suggestione ha voluto che Mesina se ne andasse proprio nel giorno in cui, 54 anni prima, il Cagliari di Gigi Riva conquistava lo scudetto, quello stesso Cagliari che lui, nei tempi sfuggenti della latitanza, andava a vedere di nascosto nello stadio Amsicora. Come se la memoria di una Sardegna fiera e ribelle si fosse chiusa insieme alla sua storia.

L’ultimo bandito

Graziano Mesina era nato a Orgosolo nel 1942, in una terra che sa di pietra e di silenzi interrotti dal vento. A quattordici anni già portava una pistola, primo reato di una carriera criminale che avrebbe intrecciato violenza, sequestri, leggende nere e, a tratti, persino gesti da romanzo cavalleresco.
In Sardegna, Mesina non era solo un nome: era un racconto tramandato da una generazione all’altra, la figura sfuggente che le forze dell’ordine inseguivano nei canaloni del Supramonte, un’ombra che sapeva sparire come un bandito dei vecchi western. Ventidue tentativi di fuga, dieci andati a buon fine. E ogni volta, il mito si ingigantiva.
Fu protagonista della stagione buia dell’Anonima sequestri, ma anche mediatore di pace. Rimarrà nella memoria il suo ruolo nella liberazione di Farouk Kassam, il bambino rapito a Selargius nel 1992, un’operazione che rivelò un volto inedito e spiazzante del bandito. Su quella vicenda, il grande giornalista Pino Scaccia seppe costruire un memorabile scoop, che svelò retroscena e intrecci di un caso destinato a rimanere nella storia nera italiana.
Quell’episodio gli valse perfino la grazia presidenziale, concessa nel 2004 da Carlo Azeglio Ciampi, ma il richiamo della sua vecchia vita sembrava troppo forte. Nel 2013, la condanna per traffico internazionale di droga lo ricacciò nell’ombra, e nel 2020, ancora una volta, scelse la fuga. Fu arrestato nel 2021 a Desulo, a pochi passi dai luoghi che l’avevano visto ragazzo, quando tutto era ancora da scrivere.

Epilogo senza ritorno

Nell’ultimo anno la malattia lo aveva consumato più velocemente delle sbarre. Le sue avvocate, Beatrice Goddi e Maria Luisa Vernier, avevano presentato più volte istanze per consentirgli di morire libero, o almeno lontano dalla cella. Il via libera è arrivato troppo tardi: la scarcerazione ha avuto il sapore amaro di una liberazione formale, durata il tempo di poche ore, giusto abbastanza perché la legge non potesse dire di averlo tenuto prigioniero fino all’ultimo respiro.
“Voleva tornare in Sardegna, non morire in carcere”, ha raccontato la sua avvocata. E in qualche modo, la sua salma ora compirà quel viaggio che in vita non gli è stato concesso: dalle stanze sterili del San Paolo ai sentieri ruvidi di Orgosolo, dove la sua storia era iniziata.
Con Mesina non se ne va soltanto un uomo, ma un frammento di quell’Italia selvaggia, un’Italia che si agitava tra faide, sequestri, codici non scritti e rispetto conquistato con l’arma in pugno. Una leggenda che si è spenta, come tutte le leggende: tra la realtà e il mito, tra la cronaca e il racconto.