di Pippo Gallelli
L’annuncio di Donald Trump dal Giardino delle Rose della Casa Bianca il 2 aprile 2025 ha segnato l’inizio di una nuova era di protezionismo economico per gli Stati Uniti. Con tariffe che vanno dal 10% al 49% su oltre 60 paesi, Trump ha dichiarato una guerra commerciale in nome della “reciprocità economica” e della protezione dell’industria americana. “Faremo pagare quello che gli altri ci tassano. Reciprocità significa che faremo agli altri quello che fanno a noi, è molto semplice”, ha dichiarato Trump. Tuttavia, ha ammesso che i dazi non saranno esattamente simmetrici: “Li tasseremo la metà di quello che ci tassano”, citando l’UE che applica il 39% mentre gli USA imporranno solo il 20%.
Le tariffe più significative comprendono: Cina (34%), Unione Europea (20%), Svizzera (31%), Gran Bretagna (10%), Giappone (24%), India (26%), Corea del Sud (25%), Indonesia (32%), Cambogia (49%), Thailandia (36%), Taiwan (32%). Israele e Brasile saranno soggetti rispettivamente a dazi del 17% e del 10%. Canada e Messico restano esenti per ora, ma soggetti a dazi selettivi su alcuni beni già annunciati.
L’entusiasmo del presidente per la “dichiarazione di indipendenza economica” contrasta però con le dure critiche ricevute da partner commerciali e analisti. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha avvertito che le tariffe generano solo caos e non risolvono i problemi strutturali del commercio internazionale. Un’affermazione che trova eco nelle reazioni di Cina, Giappone e Taiwan, tutti decisi a rispondere con contromisure e negoziati serrati.
L’approccio unilaterale di Trump rischia di innescare una spirale di ritorsioni che potrebbe danneggiare l’economia globale più di quanto possa proteggere quella americana. L’idea che la produzione torni magicamente negli Stati Uniti è una promessa elettorale irrealistica, destinata a infrangersi contro la complessità delle catene di approvvigionamento moderne.
Von der Leyen ha sottolineato che le relazioni commerciali transatlantiche hanno generato milioni di posti di lavoro, beneficiando consumatori e aziende su entrambe le sponde dell’oceano. Il protezionismo di Trump rischia di mettere a repentaglio questi legami economici consolidati.
La Cina, colpita da un dazio del 34%, ha già promesso contromisure per difendere i propri interessi, mentre il Giappone ha definito le misure americane “deplorevoli” e potenzialmente in violazione delle norme WTO. Anche la risposta di Taiwan non si è fatta attendere, giudicando le tariffe “altamente irragionevoli”.
Questa politica commerciale aggressiva si scontra anche con le esigenze delle aziende statunitensi che dipendono da fornitori esteri. I costi aumenteranno, e con essi i prezzi al consumo, danneggiando proprio quei lavoratori che Trump intende proteggere.
In questo contesto, parlare di “rinascita industriale americana” appare più una retorica politica che una strategia economica sostenibile. La vera sfida per gli Stati Uniti è riformare il commercio globale senza isolarsi. Una sfida che richiede cooperazione e negoziati, non guerre tariffarie.