Nel silenzio che precede la condanna, Erodiade non è più un nome inciso nella pietra della colpa. È una donna, sola nel suo desiderio, nuda nel tormento, viva nell’amore che non ha potuto consumare.
Nel buio della scena, la sua voce si intreccia all’assenza. Parla alla testa mozzata di Giovanni, alla bocca ormai muta che un tempo l’aveva ferita con il rifiuto. Il Battista non c’è più, al suo posto solo un simulacro inerte, un volto che non risponde e che ancora respira nella sua mente. È l’ossessione che non si spegne, la passione che divora e che ora si fa rimorso, vuoto, bestemmia d’amore.
Jokanaan
urla disperata Erodiade, una, cento, mille volte a parlarci del suo tormento per un Dio che si è fatto uomo.
Jokanaan, il nome ebraico del Battista, risuona disperato ovunque sulla scena.
L’ Erodiade di Giovanni Testori non è più carnefice, ma vittima di un gioco che forse neanche lei stessa ha mai davvero compreso. Non è solo il martirio di Giovanni Battista a compiersi, ma il suo stesso sacrificio. Ha offerto l’ultima preghiera nel linguaggio che conosceva: il sangue. Ma ora, davanti alla cenere del suo desiderio, si chiede se quel Dio che Giovanni predicava l’abbia mai guardata, se la sua sete sia mai stata degna di un nome, se la sua fame sia stata peccato o preghiera.
Il trono rosso su cui siede è un altare di solitudine, il pugnale che stringe non è più potere ma condanna. E mentre la sua voce si perde nella notte, resta solo una certezza:
“Perché io ti ho amato così com’ero. Così come sapevo”
In quell’amore spezzato, Erodiade non è più leggenda, non è più mito. È solo una donna alla ricerca di una risposta che non verrà.
Erodiade, nella versione di Testori e per la regia di Marco Carniti, non è più un’ombra dietro il velo di sua figlia Salomè, né il riflesso sbiadito di un peccato consumato altrove. È carne e voce, passione e condanna, febbre e delirio. Immersa in un chiaroscuro di memoria e ossessione, parla. Parla alla testa mozzata del Battista, quell’oggetto del desiderio che ora giace inerte, freddo. Lo guarda, lo interroga, lo ama ancora. Ma l’amore, il suo amore, è sempre stato un monologo: gridato, implorato, respinto.
Cosa resta di una donna quando il desiderio le viene strappato, quando il corpo diventa prigione e il cuore una ferita sempre aperta? Resta la voce. Una voce che sfida il cielo, che si insinua nelle crepe del dogma, che trasforma la colpa in poesia.
Testori la scolpisce con parole che bruciano, con una lingua densa, sporca di vita, capace di rendere sacra la bestemmia e terrena la divinità. Erodiade non chiede perdono, non si inginocchia davanti a nessun altare. Rivendica il suo posto nella storia, nella tragedia, nell’eternità.
E mentre la notte la avvolge e il sangue della sua vendetta si asciuga sulla pietra, il pensiero più lacerante prende forma: Giovanni l’ha rifiutata perché il suo amore era troppo umano per un Dio. Ora Erodiade si scopre sola, più sola di quanto fosse prima. La testa di Giovanni tace e, nel silenzio, comprende la sua condanna: non essere mai stata vista, mai davvero ascoltata.
Forse il suo amore era una colpa. O forse era solo troppo terreno per essere accettato. Ma ora non importa più. Lei è diventata ciò che temeva:
“L’ombra, l’umana bestemmia, l’inesistenza, la cenere, il niente”
Il desiderio si è fatto cenere, la rabbia si è spenta. L’unica risposta che le resta è il vuoto. Un vuoto che nessuna vendetta può colmare, un vuoto che nemmeno la morte potrà redimere.
Un capitolo a parte spetta a Francesca Benedetti, che ha dato voce e corpo alla tragedia di Erodiade con una potenza interpretativa, indimenticabile per chi ha avuto il privilegio di assistere allo spettacolo al Teatro Vascello. Due serate speciali per celebrare la carriera di una fuoriclasse del teatro, insignita del Premio Flaiano 2024 e musa dello stesso Testori, che nel 1974 le cucì addosso Macbett.
Benedetti affronta questo testo con l’intensità che da sempre la contraddistingue, incarnando un personaggio che è metà donna e metà dio, vittima e carnefice, nel solco della radicalità testoriana, capace di sfidare convenzioni e dogmi.
“Il tono alto oratoriale sublime è stato preservato, come l’espressività materica piena di carne di umori e di sangue, di una lingua parzialmente inventata o fatta rinascere dalle ombre dei tempi e dei deserti. Marco Carniti ha voluto infarcirla di espressioni tratte dall’edizioni in corrotto dialetto milanese, il che rende tutto più plasticamente violento e doloroso”, ci racconta la Benedetti.
Sul fondo della scena, le illustrazioni dello stesso Giovanni Testori sublimano nel disegno la crudeltà dei sentimenti espressi da una sinfonia di parole amare e al tempo stesso sublimi, erotiche ed evocative. Tra il giugno e l’agosto del 1968 Testori realizza una serie di 73 disegni a penna stilografica raffiguranti la testa decapitata di San Giovanni Battista, dove raggiunge uno dei momenti espressivi più alti della sua intera produzione.
Un parterre commosso da tanta bravura, bellezza e umanità applaude commosso senza sosta.
Francesca Benedetti si congeda dalla scena? Non si ha questa impressione nel vederla recitare né ascoltando le sue parole dopo la fine dello spettacolo.
Francesca, ti aspetteremo sempre a braccia aperte, sei una forza della natura. E commuovi.





