articolo di Paolo Jachia, musicologo e critico
Il libro di Fabio Barbero ricostruisce in modo critico gli spettacoli di Giorgio Gaber e Sandro Luporini degli anni Ottanta ed è “la seconda puntata” di un volume pubblicato nel 2021, intitolato Giorgio Gaber, Sandro Luporini e la generazione del 68, e dedicato agli spettacoli del “Teatro Canzone” del decennio precedente. Ricordato che il “Teatro Canzone” ha come caratteristica saliente l’alternarsi sempre più paritetico di canzoni e monologhi in prosa, va segnalato che, negli anni Ottanta, Gaber e Luporini hanno portato nei teatri di tutt’Italia cinque nuovi spettacoli e che di questi cinque soltanto due – Anni affollati (1981-1982) e Io se fossi Gaber (1984-1986) – possono ricollegarsi alla formula del “Teatro Canzone”; gli altri tre spettacoli infatti – Parlami d’amore Mariù (1986-1988), Il caso di Alessandro e Maria (1982-1983) e Il Grigio (1988-1990) – inaugurano (e concludono) una diversa formula che Gaber e Luporini hanno preferito definire “Teatro d’evocazione” (qui, in effetti, va detto che la canzone svolge un ruolo non certo preponderante rispetto ai monologhi in prosa e anzi possiamo dire che le parti progressivamente s’invertono fino al tacere della canzone).
Costatato che la ricostruzione di Barbero del “Teatro d’evocazione” non ha precedenti né per organicità né per profondità d’analisi, ci concentreremo però sull’indagine che Barbero svolge riguardo agli spettacoli del “Teatro Canzone” perché più conosciuti e popolari e anche per proseguire il ragionamento iniziato con la recensione al suo precedente volume a questo nuovo fortemente legato. Entrambi i libri hanno infatti come caratteristica saliente quella di «seguire il testo… passo a passo» (da ora le parole tra virgolette sono di Barbero e rimandano al suo volume ora qui recensito). Ed è questa caratteristica, il concentrarsi sull’analisi testuale, la scelta vincente di Barbero. Molto spesso infatti non si è prestata attenzione né a ciò che dicevano davvero i testi né all’arco complessivo del lavoro artistico di Gaber e Luporini e ci si é invece fermati al singolo spettacolo o addirittura alla singola canzone ed anche le monografie successive alla morte di Gaber (compresa la mia che Barbero ha la bontà di ricordare e l’acume di non citare) risultano oggettivamente molto deboli rispetto alle più di mille pagine di Barbero (l’autore ha infatti promesso un terzo volume dedicato agli anni Novanta e Duemila e per ora siamo già a più di ottocento pagine).
Ma non è solo un ragionamento quantitativo (Barbero ha compulsato migliaia di documenti gaberiani, libri ed articoli, e ha studiato più di 700 interviste di Gaber e Luporini e, non pago, ha a lungo intervistato personalmente Luporini medesimo e altri protagonisti del tempo) perché l’autore ha anche saputo cogliere con forza ed assoluta esattezza alcuni punti che hanno segnato la differenza tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del “Teatro Canzone”. Per esempio, per quanto riguarda l’inizio del decennio, scrive Barbero: «Quegli anni vedono anche l’emergere di due grandi fenomeni di società: il ritorno del privato… e l’irrompere di un nuovo misticismo. (…) In questo spettacolo (scilicet Anni affollati del 1981) compaiono vocaboli inconsueti per il Teatro canzone come “credere”, “fede” e “Dio” (Anni affollati e 1981 in particolare). Non sarà affatto una sponda per la mistica, dimensione alla quale Gaber e Luporini non aderiranno mai, ma un appello verso una nuova ripartenza e un nuovo slancio che permettano di uscire da quel clima piatto e grigio (tipico degli anni Ottanta)».
Ma quali sono le caratteristiche di questa nuova fede e di questo nuovo Dio? e dove trovarle? Barbero coglie con esattezza che il testo con cui confrontarsi è un brano dal titolo volutamente criptico, 1981, e che però dice con forza ciò di cui il nostro tempo ha (ancora) bisogno: «Signore Iddio, non so se faccia bene o faccia male / assistere ogni tanto al tuo definitivo e ricorrente funerale. / Questa volta c’era poca gente, / troppo poca gente / di cardinali e papi non se ne son visti / del resto i tuoi ministri / sono troppo effettuali / a noi piaceva immaginarli un po’ più metafisici e mentali / a noi che siamo i più ultimi fedeli / ma a scanso di fraintesi non faccio il polemista per mestiere / cerco solo di capire / di capire come fa la gente a vivere contenta / senza la forza vitale di una spinta / di capire come fa la gente che vive / senza correr dietro a niente.»
Commenta Barbero dicendo che, in questo pezzo, la teologia di Gaber e Luporini è «una teologia se non atea sicuramente “laica”, qualcosa di assolutamente originale nell’universo del Teatro canzone, una sorta di grande “teologia negativa”. Cioè, una descrizione di ciò che Dio non è, per cercare di cogliere meglio, attraverso negazioni, opposizioni e paradossi, chi potrebbe essere. Il Dio di Gaber e Luporini non è consueto, non è assoluto, non conosce il bene e il male, non ha a che vedere con il sociale, è severo e ironico insieme, ci ha dato insieme il falso e il vero, non è reale, è inventato, senza altari né vangeli.»
E poi prosegue: «Subito dopo parte la vis polemica. (Gaber e Luporini) si scagliano con insolita ferocia contro gli antichi fedeli (i compagni di qualche anno prima) diventati ormai infedeli e miscredenti, un voltar casacca che i nostri autori non riescono neanche a capire: “Ma come fate ora a vivere e a morire / senza qualcosa da inseguire / ma come fate a viver tra la gente / con l’anima neutrale e indifferente?”. Segue un confronto serrato tra “loro” e “noi”. Loro sono quelli che saltellano “dal fanatismo più feroce / all’abbandono più totale”, che praticano “nei salotti la tecnica furbastra / di fare a gara a chi è più a destra”. Loro, “gli ironici infedeli”, non hanno “il minimo spessore”, si sono dati “allo snobismo dei guardoni distaccati e intelligenti”. Noi, invece, perdiamo “un po’ il pudore a riparlare di morale”, e a rivangare “persino la retorica dei vecchi sentimenti”, a lanciare “l’urlo disperato di un coglione / che muore e che ha bisogno di una nuova religione”.»
E poi, infine, conclude, citando la fine di questa canzone-monologo: «Un Dio che spinge come una forza naturale l’uomo dal di dentro, un Dio che è l’essenza di un pensiero che cerca continuamente il vero. È questa una definizione dell’assoluto a cui Gaber e Luporini rimarranno sempre fedeli. Non ne hanno mai avuto altra. Uno dei loro ultimissimi pezzi, Se ci fosse un uomo, del 1999, la riproporrà senza variazioni» (e per una conferma si vedano, oltre alle presenti pagine 64-67, le pagine, 48, 49, 74-75, 89, 91-95, 113, 195-202, 207-224, 329, 332-334, 371-372, ecc.).
Quello ora presentato è solo uno stralcio (se pure capitale) ma ci mostra la metodologia di Barbero: analisi testuale di un brano specifico, collocazione nell’opera complessiva di Gaber e Luporini, contestualizzazione e documentazione storica. E lo schema si ripete con forza e originalità per ogni brano dei cinque spettacoli degli anni Ottanta.
È, quella di Barbero, una lettura entusiasmante che ci restituisce tutta la forza profetica del “Teatro Canzone” di Gaber e Luporini e, se mi è permesso, la loro straordinaria attualità. Ma è anche una lezione di etica e di etica del lavoro e della serietà. Con simpatia Paolo Dal Bon, presidente della Fondazione Gaber, ha detto che libri di Barbero sono opera di un “maniaco”, precisando poi che anche Gaber lo era, con quel suo modo maniacale di voler capire ed entrare a fondo nelle cose. Dunque, anche sotto questo aspetto, i libri di Barbero sono un ritratto fededegno dell’opera di Gaber e Luporini e se, da un lato, segnano un punto di svolta e di non ritorno nella storia della critica dedicata a Gaber, dall’altro sono un vero punto di inizio della critica dedicata a Luporini.
A questo proposito, e per concludere, va infatti anche detto che il libro di Barbero restituisce con grande eleganza (e fin dal titolo) tutta l’importanza che Sandro Luporini ha avuto nella composizione del “Teatro Canzone” ed è così dando la parola allo scrittore su questo delicato argomento che ci pare giusto terminare questa nostra riflessione. Scrive Fabio Barbero: «Nell’estate del 2022, Luporini evocava così il suo primo incontro con Gaber: “Voleva che lo aiutassi a scrivere i testi per la sua musica. E lì compresi la prima cosa che Gaber possedeva: una grande modestia. Credeva fermamente nel suo lavoro di musicista (e di attore), ma conosceva perfettamente i suoi limiti letterari”». E allora – si domanda Barbero – «se la grandezza del Teatro canzone fosse nata non soltanto dall’incontro fra due grandi genialità ma anche fra due grandi modestie? Le loro qualità e i loro limiti, onestamente riconosciuti da entrambi, hanno permesso una cooperazione altrimenti impossibile (e molto probabilmente irripetibile). Perché se è vero che Luporini ha offerto le parole al suo alter-ego, paradossalmente, è stato vero anche il contrario: “Io (Luporini) gli dico: Giorgio, tu sei come Brel mentre De André è il nostro Brassens. E io sono un pittore al quale hai donato la parola per dire cose che con il suo mestiere non sarebbe riuscito a esprimere”. Senza Luporini – conclude Barbero – Gaber non avrebbe mai interpretato certi testi che oggi ci sono così familiari. Ma senza Gaber, non solo Luporini non li avrebbe mai scritti ma neanche sarebbero mai arrivati fino a noi».
Se dunque è una nostra grande fortuna avere ancora per guida l’opera di Gaber Luporini, è anche un’altra grande nostra fortuna che sia finalmente arrivato qualcuno (Fabio Barbero) in grado di comprendere in profondo il lavoro di questi due grandi artisti e interpreti della contemporaneità e di insegnarci, questa volta davvero, come leggerli, ascoltarli e vederli.