Cultura

Diario di scuola. Sulle piccole magie

In prima H, la “vivacità” è difficile da contenere. Farei loro un grave torto se dicessi che sono maleducati o ribelli. No, non lo sono. Però sono tanti, tutti maschi, rumorosi, disordinati, disorganizzati, infantili nel modo di scherzare, che trascende facilmente nello scontro fisico o nella rissa; se parlano loro, sovrappongono parole e voci; se parlo io, interrompono il discorso alla prima battuta, cercando di anticipare le mie richieste, e dunque generano confusione, distorcono le informazioni, ottengono che un’attività semplice e breve si estenda a tutta l’ora, senza neppure raggiungere i risultati sperati.

Abbiamo provato con le canzoni: tentativi riusciti, ma necessariamente eccezionali. Siamo passati, in seguito, a rivisitare la divisione in sillabe con un gioco a squadre, per ottenere – contemporaneamente – che registrassero quanto il rispetto del regolamento e dei ruoli fosse funzionale e necessario alla buona riuscita di un gioco. Si sono entusiasmati, ma forse troppo: i toni si sono alzati rapidamente, e l’adrenalina li ha resi, se possibile, più elettrici.

Ho spiegato loro più volte che agitare il dito e smaniare, se un compagno non risponde subito a una domanda, equivale ad umiliarlo; che lo studente bilingue ha bisogno di riflettere qualche secondo in più prima di rispondere, senza che loro lo assalgano col loro disappunto; che mentre sto sfogliando un libro, forse sto pensando e decidendo, e dunque devo concentrarmi, e non dirigere il traffico verso il bagno. Niente, la situazione non è migliorata di una virgola.

Dopo aver raccolto diverse lamentele nei corridoi, siamo passati alle minacce: sono entrata in classe insieme all’insegnante di inglese con aria truce, e abbiamo dato vita ad una sinfonia a quattro mani, prefigurando scenari apocalittici di provvedimenti disciplinari, aprendo già le porte dell’aula, dunque, al fantasma della bocciatura.
Per due giorni ho alzato la voce e ho terminato la lezione con un senso così insopportabile di vuoto alla testa, che oggi – pur dovendo comunicare loro ottimi risultati alle prove di ingresso – non avevo voglia di vederli.

Entrando, ho poggiato sulla cattedra un quadernino verde. Vi avevo trascritto i risultati dei test e contavo di leggerglieli.
Tuttavia, quando – dopo 30 secondi dal mio ingresso in aula, e mentre qualcuno già sgomitava per guardarlo ed aprirlo – me ne hanno chiesto ragione, mi è partita, come una folgorazione improvvisa, una piccola bugia.
“Questo è il mio diario. Durante le ore in classe, osservero’ i vostri comportamenti e, senza darvene riscontro, li trascrivero’ su questi fogli. Avrò così un resoconto chiaro e ricco che forniro’ direttamente ai vostri genitori durante il prossimo incontro”.
Dopo, abbiamo fatto degli esercizi di logica e grammatica sull’uso degli articoli. Mentre lavoravano, io li fissavo con un sorriso, ma continuavo a scribacchiare sul quaderno: freccette, punti interrogativi, parole a caso. Loro mi guardavano di sottecchi ma, diffidando della penna come di un’arma, lavoravano alacremente, per evitare che la mia attenzione si focalizzasse su una loro mancanza. Per circa mezz’ora, non li ho sentiti parlare, se non con ordine, equilibrio, e al momento opportuno.
Questo piccolo quaderno verde ha fatto, dunque, una piccola magia.
E insieme mi ha chiarito una sensazione che mi porto dentro da sempre: un foglio e una penna possono salvare un’ora, un giorno, o forse anche una vita intera.