Professoressa Maria Concetta Trovato (Università degli Studi di Catania) lei ha partecipato alla stesura del volume Cesare Pavese Mythographer, Translator, Modernist A Collection of Studies 70 Years after His Death (Vernon Press). Ci può dire l’obiettivo che vi eravate posti?
La genesi del volume è stata, al contempo, laboriosa e casuale: l’occasione di un ripensamento dell’opera pavesiana è stata offerta al curatore Iuri Moscardi (CUNY di New York), che ringrazio ancora della preziosa opportunità, dal settantesimo anniversario della morte dello scrittore, caduto nel 2020. Gli interventi critici confluiti nel libro avrebbero dovuto, inizialmente, far parte di un panel organizzato in occasione del convegno congiunto di AATI (l’associazione degli insegnanti di italiano in America) e AAIS (l’associazione degli studi di italianistica in America) che si sarebbe dovuto tenere a New York quell’anno e che l’insorgere della pandemia da Covid-19 ha forzatamente messo in stand by. Ma non tutto il male viene per nuocere! Qualche mese dopo, una casa editrice accademica americana, la Vernon Press, ha “sposato il progetto”, dandogli la veste finale che conoscete.
Il nostro obiettivo – pienamente raggiunto – era quello di dare nuovo lustro e vigore alla figura di Pavese, non solo nelle ben note vesti di scrittore, ma soprattutto in quelle di intellettuale e catalizzatore della cultura dell’immediato Dopoguerra a tutto tondo.
Come è stato accolto questo tributo a Cesare Pavese?
Direi che l’accoglienza riservata al volume, soprattutto durante la sua prima presentazione italiana, svoltasi all’interno del Pavese Festival di Santo Stefano Belbo (CN) il 30 giugno scorso, con la partecipazione della Prof.ssa Laura Nay (Università degli Studi di Torino) e dello stesso curatore, è stata più che positiva, tanto da parte del pubblico quanto da quella della critica. A tale proposito, posso aggiungere che l’innovatività e la completezza degli interventi critici contenuti al suo interno sta spingendo Iuri Moscardi verso una traduzione del volume in lingua italiana, che aprirà certamente nuove prospettive di ricerca anche per gli studiosi e le studiose della nostra Accademia.
Ogni contributo sviscera una parte di Pavese scrittore eclettico e complesso. Professoressa lei insieme con Antonio Garrasi (Northwestern University, Chicago) affrontate la presenza animale nei suoi scritti. Può parlarci di come Pavese affronti questo tema sia dal punto di vista narrativo che relazionale?
L’aspetto più impattante (e suscettibile di ulteriori approfondimenti) dell’intervento critico – del quale Antonio Garrasi ha curato la veste grafica e linguistica nel passaggio dall’italiano all’angloamericano – risiede nel dimostrare, tramite una folta messe di esempi tratti dai testi pavesiani, come per Pavese il mondo animale rappresenti – in modo più o meno deliberato e consapevole – un “portatore di Alterità”.
Dal cane Belbo, unico compagno del “cinico” Guido, protagonista de La casa in collina, fino all’ibridità costitutiva che innerva i Dialoghi con Leucò, passando per i gatti, testimoni muti dell’amore di Pavese nei confronti dell’attrice americana Constance Dowling o del suicidio di Clelia in Tra donne sole, ogni riferimento al mondo animale appare, inoltre, sempre motivato da un larvato desiderio di fusione dell’essere umano con la Natura, dalla quale si è presa distanza per crescere e maturare (Ripness is all, dopotutto!), ma alla quale si vuol tornare, pur diversi, mutati, come dentro un grembo materno. La puntuale ricostruzione di un “bestiario pavesiano”, alla quale sto ancora lavorando, metterà, dunque, in luce un aspetto interessante e parzialmente inesplorato della poetica di Pavese.
Quanto è importante raccontare Cesare Pavese oggi, in cosa può illuminarci?
Ogni volta che mi viene posta questa domanda mi tornano in mente e mi piace rispondere con le parole del mio maestro, il prof. Antonio Sichera dell’Università di Catania, al quale devo il mio amore per Pavese e per la ricerca filologica: “Pavese resiste”.
L’apparente semplicità di questa affermazione nasconde una profonda verità. Pavese è scrittore “resiliente”, un “eterno ragazzo” il cui messaggio letterario e umano è ancora in grado di “commuovere”, nel senso etimologico del termine, al di là della distanza temporale che separa la sua vicenda biografica dalla nostra.
Prova ne sia il fatto che, tra i suoi lettori e studiosi, compaiono ancora tanti giovani, desiderosi non solo di godere del piacere estetico che la letteratura può offrire, ma anche di interrogarsi su di sé e su di essa, lasciandosi guidare dalle parole di uno degli scrittori “canonici” del primo Novecento.
C’è qualcosa che Pavese ha scritto che le piace più di ogni altra cosa? Ci può dare un consiglio di lettura?
La scelta è molto difficile. I libri di Pavese ai quali mi sento legata per ragioni “emotive” e di studio, sono molti, a cominciare dai sempre colpevolmente trascurati Dialoghi con Leucò, che hanno costituito l’oggetto della mia tesi di Dottorato. Tuttavia, se dovessi indicare un libro in particolare, magari per consigliarne la lettura ai miei studenti, indicherei quello che sui banchi dell’Università, mi fece appassionare allo scrittore e al suo “mistero”, ovvero La casa in collina, un’autentica pietra miliare della letteratura resistenziale italiana, che mette insieme senza eccessi il dramma, tornato peraltro dolorosamente in auge in questi nostri giorni, della Seconda Guerra Mondiale con lo spaesamento dell’essere umano, strappato di forza alla sua quiete e ai suoi affetti.
Dedico questa intervista alla memoria della cara Maria Luisa Sini Cossa, nipote dello scrittore e di Suo figlio, l’Avvocato Maurizio Cossa, sempre grata del Loro affetto e della fiducia che hanno riposto in me come studiosa e, soprattutto, come Persona.