Ornella Piluso è Fondatrice e direttrice presso il MAF – Museo Acqua Franca – DepurArt Lab Gallery. Il suo progetto artistico si chiama Topylabrys che ha la capacità di spingere oltre i confini delle materie le sue formule esecutive.
Cos’è l’arte e cosa vuol dire essere un’artista?
Bella domanda questa! Oggi il concetto di arte si è rivoluzionato completamente. Prima parlare di arte significava parlare di bellezza, l’arte era racconto, era illustrazione, l’artista aveva il compito di raccontare i gesti di grandi uomini, poi con l’arrivo dell’arte contemporanea c’è stata una svolta e quindi oggi quando si parla di arte parliamo di ricerca ma anche di comunicazione. Io, per esempio, applico l’arte a tante altre realtà. Oggi l’attività creativa può essere una risorsa, io cerco di fare arte per sensibilizzare.
Quando ha capito che fare l’artista era la sua strada?
Troppo tardi (ride). Io non usavo la parola “artista” in giovane età, solo dopo ho capito che potevo servirmi di questo termine per il lavoro di indagine che facevo e per il lavoro creativo a cui mi dedicavo. Oggi anche il termine artista è inflazionato, viene un po’ a mio avviso, usato con poco senso: non basta essere semplicemente creativi, si diventa artisti col tempo, direi che col tempo si fa dell’arte la propria vita.
Da dove nasce la sua riflessione sulla plastica?
Io ho amato sempre i materiali, le forme, la manipolazione. Già da ragazza avevo capito che avevo bisogno di sperimentare cose nuove, non ero interessata a sviluppare una ricerca sui materiali di tipo tradizionale: la pietra, il legno, perché trovavo che questi elementi erano già stati oggetto di ricerca da parte di figure di eccellenza; io non mi sentivo all’altezza di un Michelangelo né di un Leonardo, per cui molto umilmente ho pensato di guardarmi in giro e di cercare di capire quali esattamente erano i materiali più versatili, quelli che di più rispondevano alle mie esigenze di ricerca. Il primo materiale a cui ho dedicato gran parte della mie investigazioni è stato l’alluminio, il secondo il materiale plastico. Ho lavorato con l’alluminio, ho fatto un po’ di sperimentazioni e poi mi sono invece proiettata sui materiali plastici perché trovo che siano versatili ma soprattutto affascinanti.
La sua può essere definita “un’arte a tutto tondo” questo processo di creazione dove ha trovato il suo compimento?
Credo di poter affermare che l’arte che faccio io è un arte a tutto tondo, perché io cerco di arrivare all’anima della materia stessa. La materia si dice che sia memoria. Oltre all’operazione di trasformazione che compio sulla materia, io cerco di far venire fuori la sua prima memoria e questo secondo me è un valore aggiunto.
Che rapporto ha con la produzione industriale?
Sino da quando ero bambina ho frequentato le fiere e ho anche conosciuto, attraverso le competenze di mio padre, alcuni industriali che si occupavano di tecnologia, questo è stato proprio un modo naturale per me di avvicinarmi alla produzione industriale. Amo tantissimo l’idea che l’uomo attraverso le macchine possa trasformare la materia, amo l’idea che possa creare progetti, amo la possibilità che da un’idea, quindi da qualcosa di completamente astratto, la materia possa diventare qualcosa di tangibile.
Quali sono i prossimi progetti? Cosa vede nel suo futuro e nel futuro dell’arte?
Io sto già lavorando, ma devo naturalmente andare avanti nella sperimentazione, voglio continuare le mie ricerche sui materiali plastici, sui tessuti, in particolare quelli legati al mondo plastico. Avrei molti progetti, ma devo andare con calma, perché con la ricerca si sa quando si inizia ma non si sa mai quando finisce.
Per quanto riguarda cosa vedo nel futuro, ci sarebbe da fare una profonda riflessione sull’aspetto commerciale dell’arte soprattutto con l’avvento adesso degli NFT (Contenuto digitale che rappresenta oggetti del mondo reale come opere d’arte, musica, giochi e collezioni di qualsiasi tipo ndr). Io stessa mi domando come si guarderà al talento, si seguiranno le mode e il consumismo, quello che chiede il mercato o si guarderà alla ricerca, all’indagine, alla creatività? Il mercato è legato soprattutto a un discorso di budget, di guadagno; ecco, io su questo sono molto molto molto perplessa.
Cosa consiglia ai giovani artisti?
Io consiglierei di fare tanta fatica, fatica per apprendere, per fare ricerca, consiglio di essere curiosi, ma soprattutto mi sento di suggerire di abbandonare l’idea di progettare avendo come obiettivo il guadagno. I giovani devono andare fuori dagli schemi, fuori dai ruoli precostituiti e dalle situazioni abituali, devono crearsi un proprio metodo di lavoro e un loro modo personale di indagare sulla materia, devono trovare la tecnica giusta per rielaborarlo. Io credo che questi ragazzi siano anche disorientati anche dall’arte legata al digitale, che è sicuramente una grandissima risorsa, ma il digitale non può essere il fine dell’arte.
Io vedo che ci sono dei giovani che hanno veramente talento, ma che poi non vanno a fondo nelle loro indagini; approfondire comporta anche tanta fatica.
In questi giorni ho seguito un convegno splendido sulle funzioni del plasma, ne sono rimasta affascinata, però giovani non ce n’eravamo, la maggioranza erano tutti tecnici, io ero l’unica artista, l’unica creativa, l’unica designer.
Forse questi ragazzi ricevono tanti input oserei dire troppi. Forse per loro diventa difficile anche scegliere fra tante proposte. I giovani devono imparare ad andare in giro, a guardare, a chiedere, a fare domande; questo io lo faccio sempre, ancora adesso. Mi interessa conoscere.
Che cos’è il Maf?
Il Maf – Museo Acqua Franca – è una realtà molto particolare, io credo che al mondo non ci sia nulla di simile. Il depuratore di Milano Nosedo è un’eccellenza, è fra i depuratori più interessanti al mondo, anche perché ha dentro un museo che a sua volta ha dentro quasi quaranta grandi installazioni. Lo scopo di queste opere è quello di smuovere le coscienze. Il depuratore è già, come io l’ho sempre definito, una cattedrale della natura, e in una cattedrale della natura l’arte è d’obbligo. Ecco, mettere delle opere d’arte all’interno di un contesto così particolare, secondo me, serve anche ad aprirsi alla cittadinanza, serve a sensibilizzare i cittadini, a renderli anche più consapevoli dei problemi ambientali. All’ interno del depuratore arrivano gli scarti, materiale di ogni tipo difficili da smaltire. L’acqua depurata serve a tutta la città, va poi nei campi del parco; dunque io penso abbia quasi una funzione alchemica, e in questo discorso l’arte fa la stessa cosa: l’arte depura il pensiero e pure le coscienze, depura quello che dovrebbe essere un contesto sociale nel quale noi lavoriamo. Io credo che l’operazione di far muovere in questo contesto l’arte non sia fuori dalla realtà ma sia un’apertura verso la realtà stessa; è fondamentale che la società prenda coscienza di questo atto di depurazione sia del corpo che della mente.
Il Maf è nato prima come galleria d’arte e poi come museo, in quest’ottica ha la capacità di diventare laboratorio, tutte le opere in genere vengono rielaborate e la materia si spinge oltre i confini della materia stessa.
Come è nato e quali sono i vostri obiettivi?
Il Maf è un progetto che nasce da un’idea dell’associazione “Arte da mangiare, mangiare arte”, diventata anche movimento di pensiero. Io come Ornella Piluso, passando presso il depuratore mi sono sensibilizzata proprio all’ operazione sociale che fa il depuratore.
Quando il progetto ebbe inizio 12 anni fa mi resi conto quanto fossero simili il compito del depuratore e quello dell’arte, per cui proposi al presidente del depuratore, Roberto Mazzini, se voleva darci uno spazio all’aperto, per fare sperimentazione; all’inizio lui fu un po’ perplesso, perché un depuratore è un impianto, ma essendo lui un uomo molto curioso e aperto anche lui all’amore per la ricerca e per la sperimentazione, ci diede il permesso. Cominciammo la nostra avventura. All’inizio eravamo circa otto, nove o dieci artisti. All’inizio io non avevo ancora le idee chiare su cosa volessi realizzare, sapevo che volevo fare un intervento di tipo artistico ma anche di tipo sociale, sapevo però che il depuratore, io e i miei colleghi avremmo dovuto “viverlo” e così fu.