L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato finita la fase pandemica del Covid. Molte cose sono cambiate nelle nostre società e nelle nostre psicologie in questo triennio. Probabilmente tra qualche anno, grazie allo specchietto retrovisore che la distanza temporale concede, potremo fare qualche bilancio, riusciremo ad essere consapevoli dei cambiamenti profondi che sono intervenuti. Qualcosa, però, di cui siamo già bene a conoscenza ma di cui non avremo mai certezze definitive è l’origine del virus. Cosa sia successo davvero a Wuhan rimarrà per sempre un segreto, ma che da questa megalopoli cinese sia scaturito il trauma pandemico è ormai risaputo.
Anche in riferimento ad una crisi sanitaria e psicologica profonda lo sguardo di questi anni deve così volgersi verso la Cina. Di fatto, anche l’origine del Covid ribadisce che stiamo vivendo in “un secolo asiatico” come lo ha denominato Parag Khanna, un secolo che ruota intorno al Pacifico (magari estendendosi all’Oceano Indiano) e non più al tradizionale “lago Atlantico” che ha segnato gli sviluppi del mondo moderno.
La vicenda del Covid apre uno squarcio su questo lontano Oriente che abbiamo spesso trascurato o derubricato a comparsa della Storia. Il fatto di non sapere cosa succeda davvero in Cina, cosa sia successo davvero a Wuhan (si sia trattato di incidente in un avveniristico laboratorio o di accidente in un promiscuo mercato) rivela già qualcosa di importante sul mistero cinese, ovvero sul gap conoscitivo dell’Occidente. Anche le gestioni della pandemia a Wuhan e in Cina, in generale, sono rivelatrici di quel mondo: dalle menzogne iniziali, dai tentativi di celare i fatti e gli errori, dalle censure all’interno e all’estero, a uno sforzo collettivo impensabile per noi occidentali, una prova di coesione e disciplina, una mobilitazione dall’alto e dal basso che ha permesso di superare la malattia, di riaffermare la leadership politica, di riscattare l’immagine del paese. Una gestione che ha rivelato la centralità autoritaria del Partito comunista cinese, il paternalismo dei suoi leader, il confucianesimo del rispetto delle gerarchie e delle regole: tutti ingredienti indispensabili del modello cinese. Elementi che hanno permesso di soprassedere al momentaneo appannamento dell’inclinazione tecnocratica, con classi dirigenti politiche e scientifiche che hanno mostrato inizialmente scarse capacità di valutazione degli eventi in corso.
Persino l’uscita dalla pandemia, in termini economici e politici, ribadisce la centralità della Cina negli scacchieri geopolitici attuali. Ancor prima e con più forza degli Stati Uniti, la Cina ha ripreso a produrre ed esportare merci, a far crescere il suo prodotto interno lordo, a rappresentare la locomotiva economica mondiale. A livello politico, le mosse dei diplomatici cinesi pare siano le uniche tenute in conto da Putin nel discutere del conflitto ucraino e le uniche potenzialmente capaci di sbloccare la situazione in quel quadrante.
Probabilmente non si può “fermare Pechino”, come incita a fare il titolo di un recente volume di Federico Rampini. Ma nei prossimi anni bisognerà sforzarsi sempre più di “capire la Cina per salvare l’Occidente” (come recita il sottotitolo dello stesso volume) o meglio per confrontarsi e convivere in un mondo multipolare, in cui la globalizzazione non è finita ma si è rivelata molto più complessa e frastagliata di come i cantori (e i denigratori) della occidentalizzazione avevano predetto.
Credits foto di copertina: Foto di Elchinator da Pixabay