di Angela Manicone
Quando si parla della giustizia e di carcere scaturiscono idee contrapposte: garantismo e giustizialismo, vendetta e perdono, pene più severe e rieducazione. È un argomento sempre molto attuale (si pensi alla riforma Cartabia o, per ultimo, al caso Cospito), e quasi sempre divisivo. Si entra infatti in un terreno estremamente delicato e complesso, in cui il dolore assume forme diverse, quasi sempre inconciliabili, e si pone su livelli distinti e distanti. Il male che la vittima subisce non può essere paragonato al male che l’autore di reato vive stando in carcere. Caino non è Abele e mai i due possono, e devono, essere messi sullo stesso piano.
Non solo. Parole come perdono e riconciliazione risultano prive di qualsiasi connotazione e significato rispetto a crimini particolarmente atroci. Come è possibile che una persona sciolga nell’acido un bambino? Esiste un limite etico oltre quale non si più più parlare di percorso, di rieducazione, di funzione riabilitativa del carcere? Il fatto è che, il più delle volte, poniamo questo limite anche di fronte a tanti reati minori che costellano la vita quotidiana della nostra società.
Non esiste comprensione verso chi sbaglia, non esiste mai il senso di pietà, neanche se si tratta di ragazzi giovanissimi. Esiste solo il giudizio. E forse l’ostacolo a un costruttivo dibattito sul tema della giustizia è proprio il giudizio. La nostra società è fortemente giudicante. Ci piace sentirci in tribunale, dalla parte di chi emette la sentenza. Siamo bravissimi a parlare di chiavi da buttare, carcere a vita, certezza della pena, condanna esemplare, pena di morte (ebbene sì… anche questa). Sempre dalla parte di chi giudica, senza, peraltro, conoscere bene quello di cui si sta parlando. Chi, infatti, tra coloro che invocano chiavi da buttare, ha mai visitato un carcere? Ma non importa perché noi, in fondo, siamo brave persone e mai potremmo stare dall’altra parte. Non ci interessa neanche conoscere le vite degli altri. Se va bene ci commuoviamo un po’ con le storie delle vittime. Men che meno ci interessa la storia di chi commette un reato, che si trova sempre davanti a una doppia condanna, quella del tribunale e quella della società. Una sentenza, quella sociale, che spesso rafforza e conferma le nostre idee preconcette su fatti e persone.
I pregiudizi sono forse quanto di più nocivo c’è ancora nel nostro Paese e nella nostra Europa. Il pregiudizio ostacola il dialogo, la conciliazione, la comprensione dei fatti, nonché la possibilità di riscatto e di cambiamento. Chi esce dal carcere trova spesso davanti a sé un muro, una società chiusa, che non accetta l’idea che un ex detenuto possa diventare un collega di lavoro, il genitore dell’amico di tuo figlio, il tuo vicino di casa o anche semplicemente una persona con cui parlare e confrontarsi. Il pregiudizio è anche alla base delle nostre piccole o grandi condanne quotidiane, quando abbiamo già emesso la sentenza su una persona prima ancora che le sue azioni siano perseguite dalla legge. E lo facciamo spesso sulla base dell’origine etnica, della sua condizione sociale, della casa in cui vive, della famiglia di appartenenza. Condanniamo in partenza tanti piccoli e giovani che vivono in condizioni di forte svantaggio sociale e culturale. Condanniamo le arroganze dei ragazzini che vivono in strada, perché una casa, intesa come luoghi di affetto, non ce l’hanno; condanniamo gli atteggiamenti da bullo di giovani che hanno avuto quegli stessi modelli familiari, e non per loro scelta. Etichettiamo come criminali e irrecuperabili ragazzi che delinquono, ma che in molti casi hanno avuto riferimenti diseducativi sin dalla nascita.
Ma ci siamo mai interrogati su quanto la società, la famiglia, la scuola, le istituzioni facciano davvero per loro? Abbiamo mai cercato di conoscere le loro vite? O non ci importa perché non sono nostri figli? Allora forse la vera questione non è tanto come venga applicata la giustizia, ma in che modo noi guardiamo alla giustizia, se con uno sguardo giudicante o con uno sguardo umano. Scegliere la seconda strada rimetterebbe in gioco la nostra mentalità, le relazioni umane e sociali, l’educazione, il lavoro, la scuola. Ma vale la pena almeno provarci.
Credits per la copertina: Ichigo121212 da Pixabay