Da decenni, ormai, il termine “globalizzazione” è entrato a fare parte della grammatica Occidentale. La parola, che ha visto tra i suoi alfieri il filosofo calabrese, Tommaso Campanella, ha una vasta quanto indecifrabile pluralità di significati. Tentarne un’ermeneutica è un’operazione difficile, poiché i suoi significati aumentano quanto il numero delle comunità politiche che la esperiscono. Espressioni come “globalizzazione dei diritti”, “politiche per una nuova globalizzazione”, mettono più o meno d’accordo parti politiche tradizionalmente diverse se non avversarie. Eppure, la parola rivela tutta la sua trasparente fragilità, soprattutto quando le differenti comunità politiche sono chiamate ad uscire da un ambito squisitamente tecnico-economico per esperirne il suo significato etico-politico. In questo contesto non si vuol tematizzare o problematizzare filosoficamente il concetto di globalizzazione, ma è quanto mai urgente precisarne la matrice etimologica per ricostruirne la storia e la genealogia, anzitutto in relazione alla nascita della nuova Europa Unita. Globus e mundus sono due termini tutt’altro che sinonimi. Infatti, mentre globus apparentemente evoca la finitezza geografica di una terra ridotta a sfera, divenuta disponibile ad esploratori e conquistatori, mundus, invece, sulla scorta della sua radice cristiana, denota l’esaurimento di ogni senso extramondano e l’investimento di ogni senso in questo mondo, che quindi è il «senso». Da questo non possiamo dedurre che “globalizzazione” è un concetto per economisti e gruppi imprenditoriali, mentre “mondializzazione” una categoria per filosofi o teologi. Fermiamo, per un attimo, la nostra attenzione sul fenomeno migratorio: possiamo, a ragione, affermare che questa è il volto umano della globalizzazione. Il fenomeno migratorio, come noto, è antico e affonda le sue radici nella prima rivoluzione industriale, ma la postmodernità fa i conti con un inedito flusso umano che esige solide e solidali politiche di integrazione. Se i pilastri della globalizzazione sono la libertà, l’integrazione, la crescita (non solo economica), la comunicazione, è impensabile assistere ad uno scontro di forze che spingono il mondo in una direzione diversa da quella che questi valori significano. Da un lato abbiamo la globalizzazione, dall’altro abbiamo la chiusura, i muri, i dazi, gli embarghi e, quindi, una sorta di sovranismo crescente in alcune nazioni europee. La globalizzazione permette, a chiunque, di connettersi in tempo reale con persone che vivono dall’altra parte del mondo, e allo stesso tempo permette al mondo di entrare a casa nostra; gli ostacoli dello spazio e del tempo sembrano definitivamente infranti. Ma se è facile spostare soldi e macchine da un Paese ad un altro, perché non lo è con le persone? Il primo motivo è che la globalizzazione sembra concretizzarsi solo sul piano economico-finanziario; il secondo è dovuto al vincolo linguistico. Il ‘multilinguismo’, espressione con cui ci si riferisce alla pluralità di lingue parlate nel Vecchio continente europeo, è un dato di fatto. La politica del multilinguismo non consiste, tuttavia, in una proposta come valore da promuovere normativamente. Dalle colonne di Limes Elio Cirillo ha scritto: «Il multilinguismo europeo è un dato di fatto, ma gli slogan di Bruxelles sono sempre in inglese. La lingua di Shakespeare è una maschera per interessi di parte o un surrogato di esistenza e neutralità dell’Unione?». Noi speriamo non sia così, e che il Vecchio Continente Europa continui ad essere un crogiolo di libertà e culture, in cui la singola persona sia il metro di misura di ogni agire politico.