Un viaggio tra arte e non-arte, tra opera e non-opera, tra senso e non-senso; un’avventura letteraria breve, intensa e carica di eccessi.
Oggi ci troviamo spesso a riflettere sulle avanguardie e sulle forme letterarie della modernità, della postmodernità o dell’ipermodernità per cercare di capire quali strade stia percorrendo la letteratura contemporanea. Nella società liquida del “tutto compreso”, della rapidità, di un linguaggio che si evolve e che ha bisogno sempre più del supporto visivo (immagini, video, illustrazioni), come si collocano le avanguardie?
Quando ripensiamo alle avanguardie è impossibile prescindere da un movimento irriverente nato in Svizzera e che ha in parte cambiato il modo di intendere la letteratura, la società e la realtà che ci circonda: il Dadaismo.
Una tendenza antiletteraria, antiartistica che affonda le sue radici nella libertà assoluta e sfrenata dell’individuo. Si propone pertanto di distruggere il reale, l’arte, le convenzioni, la logica, ogni sistema predefinito e lo fa attraverso la provocazione, lo scandalo. Era considerata arte, in quegli anni, una ruota di bicicletta, un orinatoio, una scimmia viva intrappolata in un quadro (tentativo fallito di Francis Picabia). La parola d’ordine di questi folli artisti sembrava essere “rivoluzione” e quelle opere erano davvero rivoluzionarie, bizzarre e avevano come obiettivo ultimo quello di rappresentare il nulla, o meglio il contrario di tutto. Si trattava di una trasgressione nuova che mirava al cambiamento culturale, letterario, sociale, politico.
Il gruppo dadaista tentava un allontanamento da una realtà cupa, la guerra (Dada nasce nel 1916 a Zurigo) e tale voglia di “distruzione” era correlata proprio alla complessa e dolorosa realtà circostante: un periodo di crisi di valori e identità in cui nessuno si riconosceva in niente.
Unico elemento che sembrava predominare in tutte le opere era la casualità, utilizzata per produrre, per creare, per scrivere. Il reale era pura delusione e per questo si sceglieva di affidarsi al “caso”.
Riportiamo qualche passo del primo manifesto Dada scritto da Tristan Tzara (Moinești, 16 aprile 1896 – Parigi, 25 dicembre 1963), uno dei protagonisti del movimento, e pubblicato sull’omonima rivista zurighese nel 1918:
“Io scrivo un manifesto e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principii (…) sono contro l’azione e in favore della contraddizione continua. (…)
Così nacque DADA, da un bisogno d’indipendenza, di diffidenza verso la comunità. Coloro che sono con noi conservano la libertà. Noi non riconosciamo alcuna teoria. (…)
Io sono contro i sistemi: l’unico sistema ancora accettabile è quello di non avere sistemi. (…) Libertà: DADA DADA DADA, urlio di colori increspati, incontro di tutti i contrari e di tutte le contraddizioni, di ogni motivo grottesco, di ogni incoerenza: LA VITA”.
In questi passaggi trabocca il delirio dadaista, una follia intrisa di verità, una negazione assoluta di arte, reale, sistemi, gerarchie, logica, morale. Il movimento Dada, dunque, non si proponeva affatto di sostituire ai valori morali, intellettuali e letterari negati, altri valori. Non si preoccupava di stabilire regole, al contrario, svuotava tutto di significato con il fine di mostrare la nullità della società. Insomma una voglia e al tempo stesso una necessità di spazzare via tutto per aprirsi, forse, a un nuovo inizio. Un’arte che ancora oggi stravolge e stimola il pensiero.
Ritornando all’attualità, come ci confrontiamo con la nostra realtà? Siamo in un tempo singolare, con venti di guerra in piena Europa, con nuovi fascismi e razzismi che si insinuano nel tessuto sociale, con un senso di solitudine e di assenza di quella stessa identità che anche le avanguardie sentivano scricchiolare; il nuovo nodo della letteratura e più in generale della cultura moderna parte dal realismo, dall’oscillazione tra reale e virtuale e dalla nascita di nuovi generi originali, l’autofiction o il personal essay[1].
[1] Donnarumma, R., Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino: 2014.