di Laura Iannuzzi
La figlia Vera racconta il coraggio di una donna e madre
Le atrocità sembrano non avere fine. In questi giorni la Corte penale Internazionale dell’Aja ha emesso un mandato di arresto per Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova, commissaria per i diritti umani in Russia dal 2021, accusati di crimini di guerra commessi ai danni di bambini condotti illegalmente dall’Ucraina alla Russia. Sarebbero infatti stati deportati e dati in adozione a famiglie russe. Da quando la guerra con l’Ucraina è esplosa il presidente Putin si sarebbe affrettato a modificare le leggi esistenti per il conferimento della cittadinanza russa mediante decreti presidenziali atti ad agevolare l’iter delle adozioni. Tuttavia, all’epoca delle adozione le vittime erano ancora protette dalla Convenzione di Ginevra, dunque nessuno era autorizzato a rinonoscerle come orfani di guerra. In una guerra più lunga del previsto Putin sembra non arrestarsi di fronte a nulla. Chi lo ha contrastato ha pagato la propria audacia. É il caso della giornalista russo-americana Anna Politkovskaja, di cui nelle ultime settimane si è tornato a parlare dopo la pubblicazione di Una madre, memoria familiare di Vera Politkovskaja, figlia della gionalista, grande avversaria del governo Putin. I responsabili dell’omicidio non furono mai individuati così come non ci sono evidenze che quell’atto criminoso abbia a che fare con l’uomo che la Politkovskaja accusava di gravi violazioni dei diritti umani. Anna aveva un humor tagliente tangibile nella scrittura caustica e asciutta; era una donna ironica. Vera ricorda come la madre, scherzando, si augurava di essere almeno eliminata nel modo che più si confà a una donna, magari con un mazzo di rose avvelenate. La Politkovskaja invece moriva freddata da quattro colpi di pistola mentre aspettava l’ascensore del palazzo in cui abitava a Mosca. Era il 7 ottobre del 2006 e ricorreva il 54° compleanno di Vladimir Putin, l’uomo che Anna accusava di mantenere una politica antidemocratica ed aggressiva e di aver disatteso il sogno di una Russia libera fondata sui principi di una Costituzione garante della sovranità popolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Negli anni della prima epoca postsovietica, infatti, la giornalista è fra quanti auspicano una Russia in cui lo stato di diritto sia finalmente allineato agli standards europei e abbandoni ogni spinta autoritaria e aggressiva; ma la violenta conduzione della seconda guerra cecena non fa che confermare la spregiudicatezza politica del leader russo ispirata alla “verticale di potere” e induce, pertanto, la Politkovskaja ad una critica sempre più manifesta e coraggiosa delle scelte politiche adottate in Russia e nel Caucaso da Putin, allora ancora primo ministro con un passato da tenente-colonnello ed ex direttore del Servizio federale per sicurezza della Federazione russa. Amnesty International ha documentato più di 5 mila sparizioni sospette dal 1999 nella Cecenia occupata. La Politkovskaja, che ha seguito gli eventi intervistando chiunque fosse testimone dei fatti, definiva il suo un giornalismo «sanitario»: la sua scrittura cioè vuole fornire resoconti dettagliati degli orrori commessi dai militari russi e ceceni nello spregiudicato tentativo di sottomissione di un terriritorio separatista e del suo popolo, sottomissione che Putin, divenuto poi presidente dal 2000, definiva “operazione antiterrorista” nel Caucaso del nord. La giornalista annotava tutto quello poteva senza confini tra la vita e la professione: “io vivo la mia vita, e scrivo ciò che vedo”, affermava. La sua capacità d’analisi negli anni novanta la porta a scrivere per la testata indipendente russa di orientamento liberale «Novaja Gazeta». E’ da lì che parte la sua serrata critica a Putin ed è sempre da lì che, sin dai primi pezzi dedicati alla Cecenia, riceve minacce di morte ma continua a scrivere e a ricercare testimonianze degli orribili fatti tra ceceni e russi. Alcuni momenti cruciali del suo impegno da ricordare: tra il 23 e il 26 ottobre del 2002 quaranta militanti armati ceceni che hanno occupato il teatro Dubrovka di Mosca la convocano per mediare le trattative con il Governo russo; gli ostaggi sono 850, ma il Cremlino ordina l’irruzione delle forze speciali Spetsnaz dopo aver diffuso nel teatro un gas letale derivato del fentanyl. E’ poi il settembre del 2004 quando la Politkovskaja prende un aereo per l’Ossezia del Nord, regione indipendente del Caucaso; lì nella tranquilla cittadina di Beslan alcuni terroristi ceceni hanno fatto irruzione in una scuola e mentre Anna è in volo per documentare la tragedia in corso un improvviso malore la coglie e la costringe a tornare a Mosca. Ha bevuto un tè sull’aereo. Un tentativo di avvelenamento dicono gli esami del sangue, ma di questi esami scompaiono le tracce e la giornalista accuserà i servizi segreti russi di avere insabbiato le prove per rendere vana ogni accusa. La sua voce deve essere messa a tacere, le sue pubblicazioni pestano i piedi a qualcuno di molto influente in Russia, ma la Politkovskaja non si ferma. Sono 58 i giornalisti uccisi nel Paese dal 1992 al 2021 secondo il Cpj, il Committee to Protect Journalists. Avvelenamenti, sparizioni, depistaggi, tutto orribilmente ordinario in Russia. Vera vuole che tutto questo finisca, che si avveri il sogno della madre, o meglio di “una madre”, di un paese libero e democratico.